La tragedia del Vajont: un romanzo per riflettere sul senso della memoria
Antonio G. Bortoluzzi racconta il disastro attraverso il personaggio di un saldatore: la presentazione alla Libreria Tarantola di Udine alla presenza dell’autore
UDINE. Il saldatore del Vajont è il titolo del romanzo di Antonio G. Bortoluzzi (pubblicato da Marsilio) che sarà presentato oggi alle 18 alla Libreria Tarantola di Udine, alla presenza dell’autore, dallo storico Andrea Zannini.
Andrea Zannini
La diga del Vajont è uno dei siti di patrimonio culturale più visitati della regione Friuli Venezia Giulia. Complice, però, il fatto che la massa d’acqua che il 9 ottobre 1963 si sollevò dal bacino artificiale formato dalle acque del torrente Vajont, scavalcò la diga e precipitò sulla valle del Piave, cioè nel Veneto, provocando a Longarone e nelle sue frazioni quasi due mila morti, in Friuli il disastro del Vajont non è sempre o adeguatamente considerato una tragedia di casa nostra.
Eppure i morti, dovuti all’onda provocata dallo sprofondamento nell’acqua della frana del monte Toc, furono centinaia nei paesi friulani di Erto e Casso e le conseguenze sociali ed economiche per tutta la Valcellina, fino all’Alto Pordenonese, prolungate e considerevoli.
La diga del Vajont, che cade a picco per 270 metri e che a all’epoca della sua costruzione era una delle più alte al mondo, costituisce oggi un esempio di “dark tourism”, o “tanatoturismo”: quella forma di turismo culturale che spinge le persone a vedere con i propri occhi i luoghi delle tragedie. Che siano i campi di sterminio nazisti, Ground Zero o nella provincia cinese di Seichuan i paesi distrutti dal terremoto del 2008, che costò la vita a 70 mila persone, e che non sono stati ricostruiti appositamente per favorirne la visita, questo tipo di turismo, in forte crescita, è un segno dei nostri tempi.
C’è chi ne sottolinea la morbosità, ma negli occhi dei molti che seguono le visite guidate che partono dalla chiesetta della diga del Vajont si legge soprattutto una curiosità mista alla compassione e anche all’incredulità per come una tragedia così grande abbia potuto aver luogo. Non per cause naturali, come molti subito sostennero, ma per il rifiuto da parte dei responsabili della costruzione di riconoscere che quell’opera andava fermata.
A riflettere non solo sul disastro, ma sulla sua memoria e sul significato che esso riveste nella nostra coscienza, aiuta ora il romanzo di Antonio G. Bortoluzzi, Il saldatore del Vajont (Marsilio 2023).
L’autore, che è bellunese, non si immedesima nei sopravvissuti, non elenca i ricordi, non indugia sulle memorie. Guarda al Vajont, anzi al Grande Vajont, cioè al progetto industriale e socio-economico che stette dietro alla costruzione della diga da parte della Sade, a partire dalle opere che l’uomo ha costruito per ingabbiare la forza delle acque, e che rimaste in piedi, servono da monito.
Il quesito di fondo del romanzo, che incrocia continuamente l’oggi allo ieri, è in sintesi questo: come mai una capacità ingegneristica, scientifica e costruttiva che seppe realizzare una diga così potente e resistente non diede la possibilità, ad un certo punto, a chi comandava, di dire stop, fermiamo tutto o rischiamo di far morire migliaia di persone? Come è stato possibile, si chiede il saldatore del Vajont, che mentre si facevano saldature così perfette, non ci si voleva accorgere che dentro a quel lago artificiale sarebbe potuta franare mezza montagna? E’, spiega il romanzo, la stessa domanda che ci si pone di fronte alle centinaia di vittime del lavoro che ogni anno registriamo: come è possibile che davanti a macchinari così sofisticati e costosi l’imprudenza sia così grande, la ricerca del profitto così spudorata, il valore della vita umana così infimo?
Nell’era in cui la tecnologia è assunta a principio ordinatore dell’umanità scopriamo che, come è largamente prevedibile, l’anello debole è sempre l’uomo, con le sue bassezze e debolezze e, quando questa ne determina le scelte, la logica del profitto.
Se anche questo passasse per la mente delle decine di migliaia di visitatori che ogni anno si recano sulla diga del Vajont, il turismo si trasformerebbe da forma di ricreazione e di soddisfacimento della curiosità a riflessione e conoscenza.
Il saldatore del Vajont ci riporta al nostro obbligo non tanto di “ricordare”, quanto di conoscere, di cercare di capire e di riflettere. Come aiutano a fare le foto esposte nel Cimitero monumentale di Muda Maè a Fortogna, opera dell’architetto udinese Gianni Avon, e soprattutto le interminabili fila di marmi bianchi che lì ricordano i nomi della 1910 vittime.
Pubblicato su Il Messaggero Veneto