Non possiamo fermarci alle lacrime
Cosa faremo da domani per reagire alla strage di Suviana? “Non ci si può abituare”, tuona il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Invece è quello che continua ad accadere da anni, con l’aggravante di un peggioramento continuo
E domani? Cosa succederà, e soprattutto cosa faremo da domani, dopo il grande sciopero di Bologna, dopo le quattro ore di fermo del Paese per reagire alla strage di Suviana?
“Non ci si può abituare”, tuona il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Invece è quello che continua ad accadere da anni, con l’aggravante di un peggioramento continuo.
Nei soli primi due mesi di questo 2024 gli infortuni mortali sul lavoro sono stati 119, più 19 per cento sullo stesso periodo del 2023; le patologie professionali denunciate sono salite del 35 per cento, superando quota 14mila. La media annuale delle denunce è di fatto invariata da quindici anni a questa parte, 630mila l’anno; l’Italia è al terzo posto nella graduatoria europea degli infortuni sul lavoro dopo Germania e Francia, prima in quella dei morti.
Cambiano fatti, situazioni, tragedie, storie umane, ma il copione rimane tragicamente identico. Si continua a morire, ma anche a riportare lesioni spesso permanenti, a contrarre malattie, a pagare di persona: nelle fabbriche, nei cantieri edili, nei magazzini, nei mezzi di trasporto, nei campi, per strada.
Ogni volta, si continua a stracciarsi le vesti, a organizzare cortei, a invocare modifiche, a formulare promesse solenni; ogni volta, un pugno di ore dopo la reazione è già evaporata, in attesa della sciagura successiva; e i familiari delle vittime restano soli, sepolti da valanghe di cordogli che scivolano lentamente in un silenzio tombale.
Il gap italiano in materia è cronico: abbiamo approvato la legge del 1994, la famosa 626, con cinque anni di ritardo sulla direttiva europea che ce lo imponeva; nel 2008 abbiamo varato un testo unico definito rivoluzionario, ma da allora abbiamo già celebrato 20mila funerali. Inutilmente. Cosa c’è da fare per non abituarsi sul serio, lo sappiamo da tempo. C’è un concorso di cause che sommandosi danno origine a un’autentica pandemia: legislazione farraginosa quanto carente, burocrazia eccessiva quanto superflua, modalità e ritmi di lavoro drogati dalla sete di guadagno, formazione clamorosamente inadeguata, vigilanza ridicola, misure di sicurezza inadeguate e soprattutto largamente ignorate, prevenzione di fatto a zero.
Per non parlare del lavoro in nero, che tocca 16 persone su 100 nel solo settore delle costruzioni, e della piaga dei subappalti, autentica vergogna nazionale: più di sessanta nella recentissima tragedia della Esselunga a Firenze.
Su tutto, la sostanziale inerzia della politica: il ministero del Lavoro deve tuttora emanare 26 decreti per rendere operative le modifiche al testo unico della sicurezza. Oggi ci mobilitiamo sui morti, i dispersi, i feriti di Suviana. Giusto piangere, legittimo indignarsi, sacrosanto dire basta; sconfortante, se non colpevole, fermarsi lì. A partire da chi deve mettere mano alle misure per smetterla davvero di abituarsi.
C’è una denuncia che deve far riflettere, di Paolo Ricotti, presidente del patronato nazionale delle Acli: “E’ molto brutto da dire, ma purtroppo mille morti non muovono molto nella politica, sono considerati una cifra tutto sommato accettabile, anche se si finisce per piangere ogni volta che si scatena un episodio”. Ecco cosa deve cambiare, da domattina, dopo Suviana: smetterla di fermarsi alle lacrime. Per non diventare complici.
Pubblicato su Il Messaggero Veneto