Dramma e storia: il terremoto del 1976 anima il romanzo di un’autrice tedesca
Esther Kinsky racconta l’identità collettiva nata dal sisma: «È una società in evoluzione, in cui i miti sono vivi»
Il rumore sotterraneo del terremoto riecheggia ancora nell’ambiente e nelle storie di coloro che hanno vissuto la tragedia e di coloro che quella tragedia l’hanno sentita rievocare nei racconti dei genitori. Questo rievocare ha colpito la scrittrice e traduttrice tedesca Esther Kinsky, fin da quando, nel 2018, giunse in Friuli: dai racconti delle genti ha tratto l’ispirazione per scrivere Rombo (Iperborea edizioni) uno dei pochi romanzi dedicati al terremoto che, nel 1976, distrusse il Friuli e provocò mille morti.
Sfogliando le oltre 200 pagine del romanzo, il lettore saltella nei vissuti di Adelmo, Olga, Lina, Gigi, Silvia, Toni e Mara, persone irreali con i pensieri messi – sono le parole di Mara – «sottosopra» dal terremoto. Sono personaggi immaginari, specifica la scrittrice, anche se dietro questi racconti si colgono realtà non invenzioni. Rombo con delicatezza riporta alla luce la civiltà contadina, la paura del cambiamento, piccoli e grandi drammi, il paesaggio e le sue trasformazioni geologiche; racconta come i nuovi edifici colgono solo in parte ciò «che la gente conferisce ai luoghi in un determinato momento», e come i lacerti di affresco nel duomo di Venzone parlano «del ricordo come di un dovere».
E se ricordare è un dovere, cinque anni fa l’autrice – lo diciamo con le sue parole -–si è «resa conto che il terremoto era ancora inaspettatamente presente, nelle persone e sotto forma di macerie e rovine nel paesaggio. Sembrava aver plasmato in modo significativo la consapevolezza delle persone rispetto al loro posto nel paesaggio e nella società». La presenza del terremoto nei ricordi delle persone e «l’impatto del sisma sulla percezione di se stesse nel paesaggio e nella società», l’hanno ispirata e indotta a scrivere il libro. «Quello che mi colpisce moltissimo – rivela – è il modo in cui il ricordo del terremoto sembra aver istituito un’identità collettiva “post traumatica” in una società altrimenti molto frammentata, quasi disintegrata».
La scelta del titolo non è casuale anche se in Friuli si è sempre parlato di boato del terremoto: «Il titolo si spiega – chiarisce la scrittrice – con l’esergo che precede il primo capitolo, una lunga citazione tratta da un manuale tedesco di geologia del XIX secolo in cui il rumore peculiare che precede i terremoti è definito rombo».
Nel 1976 Esther Kinsky era in Canada e osservava «in molti negozi e ristoranti italiani le cassette per la raccolta fondi per i terremotati friulani».
Allora Kinsky non poteva immaginare che, a distanza di qualche decennio, avrebbe toccato con mano i risultati della solidarietà internazionale proprio in Friuli, «in una valle anonima a est del fiume Fella». Nel romanzo l’autrice non esplicita i luoghi, si limita ad assicurare che nonostante alcuni indizi, tra cui i musicisti e il carnevale, non è la Val Resia.
«Ogni lettore – aggiunge – può riconoscervi ciò che vuole o darle il nome che preferisce. Ecco il motivo per cui uso pochissimi nomi di luoghi». Kinsky non si lega ai posti, «non ero mai stata in questa parte del mondo – racconta –, ma sono sempre stata interessata alle periferie». A suscitare il suo interesse «è stato il passato di queste valli e il modo in cui viene preservato nei ricordi».
Il fatto di aver ascoltato e riportato voci diverse «è stato un esperimento, non mi interessa collocarmi in un determinato genere letterario» risponde l’autrice a chi le chiede se il suo romanzo, nel suo essere frutto di invenzione, può dirsi antropologico. «In una discussione dopo una lettura, una persona l’ha definita “una fintastoria orale, ma al tempo stessa autentica”.
Mi è sembrata una definizione molto precisa. Non parto mai dall’idea di “fare interviste”, mi affido a quello che la sorte mette sulla mia strada. Ho parlato con tante persone diverse e poi ho deciso di intrecciare queste voci frammetarie in sette filoni narrativi distinti». A Kinsky non piace rendere riconoscibili le vite e le storie delle persone.
Ai racconti del terremoto Rombo intreccia le descrizioni dei paesaggi anche se la natura non li ha plasmati, bensì la storia. «La storia fa la società, ma anche la società fa la storia, ed entrambe sono plasmate dalle condizioni geologiche, meteorologiche, “naturali”. Per me – rivela –, questo è soprattutto un libro su una società in evoluzione, in cui i miti sono ancora vivi, mentre il patriarcato tradizionale è ormai ridotto a una facciata cadente». Quello che ha colpito davvero l’autrice nelle conversazioni casuali sono state «la forza, l’intraprendenza, il senso dell’umorismo e la sensibilità poetica delle donne rispetto alle osservazioni e ai ricordi più convenzionali degli uomini» con cui le è capitato di parlare». In quei momenti Kinsky ha provato gratitudine per il modo in cui è stata accolta dai friulani, «per la generosità» con cui hanno condiviso con lei i loro racconti, facendola sentire «parte della comunità. Quando si ha la possibilità di restare stranieri e al tempo stesso sentirsi a casa in un posto è segno che la comunità è calorosa e aperta».
L’ultimo capitolo del libro è dedicato alla ricomposizione del duomo di Venzone anche se – precisa l’autrice – «l’approccio alla ricostruzione è solo un costrutto narrativo intorno al ruolo centrale assunto dal frammento superstite dell’affresco. È questo che più di ogni altra cosa ha suscitato il mio interesse: reca le tracce delle persone, in gran parte analfabete, che si sono fermate in quel luogo e hanno lasciato una testimonianza del loro passaggio con il loro piccolo segno o la loro firma abbozzata, che testimoniano il loro desiderio di essere ricordate». Quello che le sta più a cuore «sono i modi di ricordare, i tentativi di ricostruire i ricordi. Anche la memoria è una superficie frammentaria, come i resti dell’affresco».
Pubblicato su Il Messaggero Veneto